Dittico idraulico e altre storie. Conversazioni con Frank Westerman
La poetica, fluida ed evocativa, di Leonardo Merlini si fonde con l’intensità narrativa del celebre scrittore olandese Frank Westerman in un racconto, quello dei loro incontri, che naviga sulle acque di Venezia e del Vajont, del Lago Nyos e dell’Arca di Noè. Le grandi opere idrauliche come porti da cui salpare per una narrazione del contemporaneo, e dell’umano tentativo di governarne i flussi.
di Leonardo Merlini
La finestra dell’albergo si affaccia sulla Laguna. La prima cosa che sento, quando la apro, è il suono di sottofondo che definisce in un certo senso l’essenza di Venezia: il movimento delle onde, le oscillazioni dei pontoni, l’increspatura delle imbarcazioni, qualche sirena di avviso. Il cielo è grigio, l’acqua densa come una coperta che vuole nascondere dei segreti, qualcuno trascina un trolley sulla Riva degli Schiavoni, nascosto da un ombrello giallo chiaro. Piove. Sono le 8:33 del 22 novembre 2022, tra poco più di un’ora è prevista la marea a 160 cm; una marea eccezionale, pericolosa, potenzialmente devastante. Mia figlia dorme ancora nella stanza accanto.
La coperta della Laguna ora mi appare minacciosa, seppure sempre bellissima. Il bollettino del Comune di Venezia mi informa che tutte le schiere del MOSE sono state attivate. Il 1° novembre 2021, quando la previsione di acqua alta arrivava “solo” a 130 cm, la barriera costruita in lunghi anni a suon di miliardi e anche di scandali aveva davvero contenuto l’acqua e, come ha scritto il reporter e scrittore olandese Frank Westerman, «Mosè aveva diviso in due il Mar Adriatico». Il MOSE funzionava, almeno per le grosse maree, e ha funzionato anche oggi.
Riavvolgiamo il nastro. Questa, in fondo, è la fine del racconto. Una fine che, nonostante il vento e la pioggia sferzante, è stata lieta: Venezia ha superato la crisi senza gravi conseguenze, l’Acqua Granda è rimasta, per dirla con lo scrittore Ben Lerner, una tempesta mai accaduta grazie al MOSE. Ma Westerman – uno che ha fatto del giornalismo una forma di letteratura di alto livello e che, sull’isola di San Servolo, ha conosciuto direttamente la fragile realtà lagunare della città – ha raccontato di quando le tempeste sono arrivate davvero, nel 2019 a Venezia e, con tutto l’orrore di una tragedia annunciata, sul Vajont nell’ottobre del 1963. Lo ha fatto in un piccolo libro, Dittico idraulico (2022), uscito per la casa editrice veneziana Wetlands; e lo ha fatto con il suo stile di reporter, di indagatore in prima persona di quella cosa misteriosa che chiamiamo realtà.
Prima di continuare a scrivere aspiro l’odore di questo momento, che è salmastro e umido. Penso che sia l’odore giusto per provare ad andare avanti, l’odore giusto per lasciare che le parole a poco a poco mi sommergano come la Laguna che cresce, e cresce, e cresce. Dentro di me la sua immagine sentimentale diventa enorme, imprescindibile. Venezia è la città. Venezia è l’acqua. E questa storia parla di acque.
Intermezzo #01: le grandi opere idrauliche hanno segnato la storia dell’umanità e della sua civilizzazione. Gli acquedotti romani ancora oggi stanno come un monito davanti ai miei occhi di viaggiatore, un monito che suona anche sinistro se penso al tema – anzi, all’iperoggetto, per dirla con il filosofo Timothy Morton – del cambiamento climatico. Il porto di Cartagine in confronto a quello di Rotterdam, e la sua architettura ipercontemporanea; le dighe sul Nilo e le imbarcazioni degli antichi egizi; quei fari che stavano letteralmente alla fine del mondo, come se fossero nella testa di Edgar Allan Poe, presenti come bastioni delle nostre memorie involontarie.
«I fatti sono inorganici, non sono vivi, sono materia morta. Le storie invece sono vive», mi ha detto un giorno a Ferrara Westerman. «Bisogna sussurrare, soffiare la vita dentro i fatti», e poi, alzando la voce, quasi con urgenza: «Le storie si moltiplicano, mutano, evolvono. E non parlo dei romanzi, ma dei reportage, dei saggi. Non invento nulla, ma come scrittore cerco di dare vita ai fatti». E i fatti in q uesto caso sono intrecciati, uniti dal racconto di alcuni testimoni, dal tornare sui luoghi, dal provare a ricostruire le diverse forme di mitologia – storica, politica, interpretativa e anche giudiziaria – che si accompagnano inevitabilmente alla ricomposizione di un fatto catastrofico come il crollo della diga che spazzò via Longarone, ma anche delle periodiche inondazioni veneziane, quell’inesausto ritornare del Mare che a poco a poco sommerge la città e, con essa, il nostro immaginario collettivo su uno dei luoghi più celebri al mondo, conosciuto da milioni e milioni di persone. Anche se poi quante di queste hanno davvero camminato sulle passerelle di legno in piazza San Marco, nelle sere di acqua alta? Quante hanno visto davvero allagarsi le case o scomparire le porte? Quante hanno sentito il silenzio, un attimo prima del disastro?
«Il punto zero dell’acqua alta e bassa a Venezia – scrive Westerman nella sua storia di due storie, tra la Laguna e il Vajont – è il livello medio del mare, misurato nel 1897. Sulla Punta della Salute, allo sbocco del Canal Grande, questo zero mareografico è indicato con una riga orizzontale, intorno alla quale è stata costruita una stazione di rilevamento che fa pensare a una latrina. All’interno gira lentamente un rullo cilindrico verticale, ricoperto di carta a quadretti. Una penna meccanica, collegata a un galleggiante nell’acqua, disegna le onde di bassa e alta marea al ritmo della posizione del sole e della luna».
Non succede molto in questo passaggio, ma è bello sentire la voce dell’ingegnere (qualcuno dice agrario, altri, forse suggestionati, dicono addirittura idraulico) che Westerman è stato prima di diventare, come recita il risvolto del libro, «uno dei più importanti scrittori olandesi contemporanei».
Una voce che ha un approccio analitico, ma anche la postura del narratore, dell’osservatore. Mi piace pensare, per giocare all’identificazione, anche del cronista. Mi sono fermato spesso su quella Punta negli ultimi anni, da cronista dell’arte (e dei sentimenti), perché da lì si ha la sensazione di abbracciare tutta la città, comprese le sue acque, che invece è un’operazione più difficile da altri luoghi a livello del mare. Dalle altanelle o dai campanili è più facile, certo, ma Venezia è le sue fondamenta incurabili, è la prospettiva di chi cammina e guarda il Canale dal punto zero (come capita in alcune Città invisibili di Italo Calvino). Le alghe che si muovono, rossastre, come i capelli di una donna enorme che vive misteriosa sotto la città, e forse la sostiene. È possibile che sia la sua furia a scatenare quei momenti di tempesta, favoreggiando l’idea della scomparsa. La morte per acqua, come diceva T.S. Eliot ne La terra desolata. Il Phlebas del poema era un fenicio – civiltà pioniera, assieme a quella romana, in grandi opere di ingegneria idraulica – ma avrebbe potuto benissimo essere veneziano. E Westerman probabilmente lo sarebbe andato a cercare sott’acqua per avere la prova non che il personaggio fosse realmente esistito, ma che noi tutti siamo (stati) vivi davvero, almeno per qualche momento, fuori dalla letteratura. Vivi a Venezia, questa città impossibile che non abbiamo mai voluto (o potuto, chissà) capire.
Westerman scrive, rielabora, si muove nell’elemento fluido con la permeabilità della sua prosa e delle sue storie. Quella del 4 novembre del 1966, quando l’idrografo segnò la misura record di 194 centimetri sopra il punto zero. Quasi due metri in più: uno scenario da film sull’apocalisse climatica, più o meno. «Un forte vento di scirocco, in combutta con svariati corpi celesti, sollevò il mare Adriatico fino all’ascensore del Campanile. Di colpo, con il Campanile in acqua fino alle caviglie, ogni splendore sembrò effimero. Sulle banchine allagate, i palazzi sembravano sul punto di essere portati via dall’acqua come scatoloni. La sopravvivenza di Venezia e del suo carico di tradizioni sembrava ancora una volta solo una questione di tempo. Le banchine erano disseminate di gondole sventrate, le coste nude, come carcasse spiaggiate di creature marine».
Intermezzo #02: primavera 2017, Palazzo Grassi. Dalle grandi finestre del secondo piano entra tutta la meraviglia della luce veneziana in un giorno terso. La scultura blu di Damien Hirst occupa tutta la sala: Andromeda e i mostri marini. Uno squalo e un serpente acquatico gigante a fauci spalancate stanno per avventarsi sulla giovane donna incatenata alle rocce. Lei gira il capo e urla, fortissimo, per sempre. Un attimo prima che la tragedia si consumi, il famoso momento di silenzio (è pur sempre solo una scultura) prima dello schianto. Andromeda ha il volto di Tilda Swinton. Mi sembra l’immagine perfetta per dare una dimensione concreta alle parole di Westerman. Le creature del mare che assediano e stanno per sbranare la città che non ci poteva essere. E per sempre si resta sulla soglia della tragedia, annunciata, apparecchiata, mai consumata, forse. (Una sera, nel 2022, mentre vagavo per San Marco, perso nei giorni della preview della Biennale Arte, Tilda Swinton è uscita realmente da un portone, davanti a me. Per un attimo abbiamo incrociato gli sguardi, poi abbiamo preso direzioni diverse).
Marinetti che proclama il suo odio per Venezia città bordello decadente, il Campanile di San Marco che improvvisamente crolla nel 1902, il Ponte della Libertà come il dito medio di Mussolini. Succede tutto in poche pagine che sembrano sempre sul punto di essere travolte dalla marea, o dalla massa d’acqua del Vajont. Ma, per questa volta, voglio lasciare che la sagoma più netta in questo racconto sia quella di Venezia, meno tragica, più inafferrabile. «Dobbiamo convivere con eventi traumatici come un’ecatombe in una vallata remota – mi ha detto ancora Westerman – quindi creiamo storie». Storie che sconfiggono la morte. Storie che hanno la tenacia della risacca o dei capanni di legno al Lido, così provvisori da sembrare destinati inevitabilmente all’eternità. Un po’ come l’urlo di Andromeda-Tilda in quella mostra dell’ex ragazzo arrabbiato dell’arte contemporanea britannica, così assurda e meravigliosa e roboante e grottesca. Fateci caso, i quattro aggettivi stanno benissimo anche per descrivere un’altra cosa: la vita.
Poscritto: un lago in Africa, dopo il diluvio. Ci sono altre acque nella bibliografia di Frank Westerman, non solo quella veneziana, verdastra e così carica di Thomas Mann. C’è anche il lago Nyos, in Camerun, intorno al quale nel 1986, la notte tra il 21 e il 22 agosto, improvvisamente e senza alcun segno di distruzione muoiono oltre duemila persone e moltissimi animali. I sopravvissuti hanno pustole e soffrono di asfissia. I testimoni parlano di un’esplosione e delle acque del lago che, da limpide, erano improvvisamente diventate rosse. Westerman è andato anche lì, intorno a quelle acque da fantascienza, a raccontare qualcosa di impossibile in prima persona. Il lago della non-conoscenza, in un certo senso; un luogo dove per cercare la possibilità di una verità bisognava nuotare verso il fondo sempre più oscuro, mentre in senso inverso emergevano le narrazioni religiose, scientifiche, antropologiche, ognuna a suo modo semplificatoria, ognuna a suo modo tanto vera quanto falsa. Goffredo Fofi ha definito quel libro – L’enigma del lago rosso – «un viaggio nella confusione del mondo e nella babele delle tante risposte che vengono cercate e che vengono date». Tutte travolte, alla fine, dalle acque del Nyos, che ha serbato il suo mistero chiuso in sé, come cantano nella Turandot. Si è inabissato Achab con Moby Dick, si inabissano anche tante altre storie umane, la scrittura prova a salvare almeno la loro narrazione. Ma Frank Westerman – e qui chiudo giocandomi la carta di un piccolo colpo di scena – è anche l’autore di un altro memorabile reportage geo-storico-politico dedicato a una montagna, l’ultima del genere umano, o forse la prima: quel monte Ararat (2010) che dà il titolo al libro e dove andò a fermarsi l’arca di Noè.
Prima di noi, il Diluvio.
(Quando sto per premere il tasto dell’ultimo punto di questo pezzo alzo un attimo lo sguardo. Sono seduto a gambe incrociate su una panchina di pietra alle Zattere, e adesso vedo la Giudecca e il Molino Stucky. Proprio in quel momento, all’improvviso, comincia a piovere. Immaginate il rumore).