Ossigeno

76 77 toni, in un Cristo Velato che si ribella alla stasi della morte. E ancora, nella Pietà di un uomo verso un uomo, di una donna verso una donna, di un uomo verso una donna; in definitiva, nella Pietas dell’umanità nei suoi stessi confronti, perché l’umanità contemporanea non può che essere de-genere. Archetipi della storia dell’arte - fiamminghi e rinascimentali in primis - abbandonano studioli e cappelle votive per frequentare alberghi ad ore, periferie suburbane, chat room e dark room, nuovi luoghi di aggregazione sacra e culto profano. La luce è quella intimamente persuasiva della fiammella di una sola candela, accesa da Caravaggio e tenuta in vita da Kubrick. I colori sono freddi, composti, immersi in un luogo senza rumore, se non quello del nostro stesso alterato respiro. La raffinata ossatura scenica, della quale è maestro nella composizione, è figlia di un eclettismo culturale sporco della più profonda, e più inconscia, introspezione. Tutto - dall’esatta disposizione del modello, nell’economia dell’inquadratura, alla sua posa, deliberatamente mai enfatica - concorre al raggiungimento di un rigore compositivo potenziato, nella sua contraddizione, dalle incrostazioni di multiformi drappi sulla pelle, o dalla messa a fuoco di segni che la incidono, simbolo di altrettante incrostazioni psicologiche: una geografia del vissuto che, quanto più è scoperta, tanto più scava dentro, come se l’apparato mentale nel quale Sabbagh imprigiona i suoi soggetti divenisse loro complice, protezione caustica, petrolio sulle ali di un albatros in un mare nero. Una Sindrome di Stoccolma alla quale i suoi effigiati si abbandonano, consenzienti e incoscienti che in ognuno di loro si nasconde lui, schiavo della sua mente in costante anelito progettuale, devoto ad una pelle infetta di vita. Ma, nonostante il carico emotivo sia immediato di fronte ad una sua opera, occorre il raccoglimento dello sguardo di chi riesce a percepire le ombre nel buio, per vivere l’arte di Sabbagh come esperienza totale, come le si conviene, dal momento che questa non sarà mai - ne sono certa - un mistificante ready-made: Mustafa Sabbagh è il più concettuale dei figurativi, e il più lucido dei visionari, nel ritrarre ora una Madonna languida, ora un landscape livido, per creare un dittico le cui due dimensioni compositive potenziano il senso l’una dell’altra, storie in attesa di essere raccontate, qualunque finale decida di scriverne chi le guarda commosso. Uno scandaloso santo quale Carmelo Bene ebbe a dire: “L’artista, qualora si assuma anche l’etica, deve essere non dico in odore, ma quanto meno in lezzo di santità”. L’arte di Mustafa Sabbagh spalma di un nero santificatore ciò che di più carnale esiste come fosse il più squisito dei nettari, o il più amaro dei veleni. Al di là di una potentissima estetica, in questo risiede la sua etica: nella sua santità nuda e cruda, Mustafa Sabbagh ci sfida a pensare. stage name nudi e crudi Pelle come urna sacra, di porcellana e cicatrici, diario di vulnerabilità esposta ad un vissuto imperfetto, splendido proprio in virtù della sua infezione. Pelle sensibile, libro sacro in tiratura unica. Vene che pulsano, nervi tesi, topografia intima di abiti che costringono, di tatuaggi che raccontano, di corde sciolte dopo una prigionia - o dopo un estremo gioco di piacere. Tramite con il mondo, microchip impossibilitato all’oblio, Pelle Pura Vita. Nell’era della perfezione patinata, e per ciò stesso bugiarda, la celebrazione della magnifica imperfezione richiede una sensibilità altra, rispetto allo status quo del conformismo compromissorio. Ci vuole una cultura raffinata, nemica giurata dell’informazione di regime. Ci vuole un Narciso bambino, con la sua bellezza auto-innamorantesi, per riuscire a rendere arte il proprio feticcio. Trovarsi di fronte ad un’opera di Mustafa Sabbagh, nuda e cruda nella sua lacerante potenza, è ritrovarsi parimenti nudi e crudi, inermi e sopraffatti, a fare i conti con quelle che chiamavamo paure e che scopriamo, arrossendo per un retaggio malcelato, essere desideri. Sabbagh - un passato da fotografo di moda condotto nell’insofferenza all’appiattimento ad un unico diktat di pseudo-bellezza, un presente da artista contemporaneo internazionale condotto da ribelle, rispetto ad un establishment dedito all’autoerotismo pseudo-intellettuale - è l’interprete perfetto dell’imperfezione, avendone carpito - come un alchimista, come un confessore - il suo segreto: “io sono diverso da te, perché ho altri tipi di difetti”. La sua arte è diretta testimonianza di un ossimoro: iconoclastia attraverso la sacralità di un’immagine, perché “occorre conoscere per dissacrare”. Mustafa Sabbagh padroneggia la lingua dell’arte con la carica potente, e potentemente erotica, di chi sa bene quello che fa: la storia dell’arte rivive nella sua arte - in una sigaretta appena aspirata da San Sebastiano, nell’estasi di una fetish Ludovica Alber- - NOME D’ARTE - nome d’arte

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