151 L’inganno del bianco, la ricerca superficiale del bello. Tutto così puro, lindo, lo sguardo verso l’orizzonte infinito del mare. Avanti, sguardo fisso, inspirare/espirare. Acqua fresca sul viso, il sale sulle labbra. E no, non ti voltare. - Angelo Del Negro, Veryverywhite, 2021 In un gioco intellettuale che, siamo sicuri, lo storico dell’arte Aby Warburg avrebbe benedetto, immaginiamo una sessantaquattresima tavola perduta del suo Bilderatlas Mnemosyne (1925-1929), atlante figurativo e opera critica monumentale sulla costante stratificazione di immagini della storia dell’arte, e inchiodiamola al muro delle nostre sinapsi. Poniamovi la serie Veryverywhite (2021) di Angelo Del Negro e, accanto, la Natività (1470-1475) di Piero della Francesca: opere lontane nel tempo, figlie di due artificiosità non altrettanto lontane. Tutte bagnate da un’acqua surreale, nella quale figure e natura si specchiano o si immergono. Tutte dominate da colori freddi, a volte smorzati, sempre smaltati. Tutte composte da intersecazioni di piani di acqua e di terra. Tutte stagliate su uno sfondo di torri sottili e svettanti, che siano ciminiere o campanili, torrioni gentilizi o torri di raffreddamento, ruderi in attesa della ricostruzione, o occulti e smaglianti in un territorio avvelenato. Gettiamo ponti su tempo e spazio per trovare che esse affondano le radici nel vero paganesimo sottinteso della cultura italiana, quello del Rinascimento e del suo eterno ritorno come traccia della nostra memoria collettiva, ma anche sulla solida base della rigenerata fotografia di paesaggio del Novecento. Ritroviamo così, in Veryverywhite, la fluida conseguenza delle lezioni di quel fronte culturale che è stato la Scuola Italiana di Paesaggio di Luigi Ghirri et alii, dalla quale prende le mosse – a partire dagli anni Ottanta, e fino ai primi anni Novanta – la rivoluzione della landscape photography, osservatrice acuta della caduta in disgrazia del paesaggio nostrano, profondamente mutato attraverso il boom economico del dopoguerra, del post-industrialismo e dei suoi fantasmi. Un paesaggio che, nel caso delle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay, comincia alla preistoria dell’industrializzazione, spezzando prematuramente l’armonia oleografica da cartolina della Costa Etrusca del Belpaese per ricomporla in una versione moderna e avvelenata, in un rapporto tra natura e cultura nuovo e inedito. Ed eccolo, quindi, il neo-Rinascimento toscano al mercurio e azoto ammoniacale: un paesaggio quattrocentesco, quello della Rosignano Solvay, sbiancato dal carbonato di calcio, nel quale un’umanità post-californiana altrettanto ossigenata ha fatto il nido, così a suo agio nella sua nicchia del disastro ecologico locale. A popolare le marine di Angelo Del Negro non sono le figure statuarie dalle proporzioni divine di Piero della Francesca, immobili nella loro eterna perfezione geometrica, ma piuttosto piccoli personaggi contemporanei – alcuni fuggiti per il week-end dalle fila delle common people di Duane Hanson, altri forgiati inconsciamente, in stile Lachapelle, in silicone e inchiostro, tutti diluiti omeopaticamente in qualche chilometro di sabbia e acqua di un azzurro da atollo atomico. Subordinati all’elemento acquatico in quanto da esso logicamente dipendenti poiché, sottraendo l’acqua, loro stessi non avrebbero senso, cristallizzati nella iconografia balneare del secolo ventunesimo. Come anestetizzati dal cloroformio dell’industrializzazione selvaggia, i bagnanti del polittico Solvay si lasciano galleggiare sulla superficie delle acque dove si potrebbe immaginare che stia per accadere indisturbata una Nascita di Venere dalla spuma di metalli pesanti, o si possa assistere al miracolo del Cristo che cammina verso la navicella di Pietro sulle acque dense di fanghi di scarto, tra lo stupore degli apostoli e lo sguardo annoiato dei bagnanti agostani, abbacinati dalla sabbia addizionata E170, in estasi caraibica e lietamente inconsapevoli (o consapevolmente lieti) del rischio. Perché, come disse Gottfried Wilhelm von Leibniz, delle cose che non si conoscono si ha sempre un'opinione migliore – o anche, citando un’icona consumata e decisamente più contemporanea: how could it hurt you, when it looks so good?
RkJQdWJsaXNoZXIy NDUzNDc=