24 Una voce che ha un approccio analitico, ma anche la postura del narratore, dell’osservatore. Mi piace pensare, per giocare all’identificazione, anche del cronista. Mi sono fermato spesso su quella Punta negli ultimi anni, da cronista dell’arte (e dei sentimenti), perché da lì si ha la sensazione di abbracciare tutta la città, comprese le sue acque, che invece è un’operazione più difficile da altri luoghi a livello del mare. Dalle altanelle o dai campanili è più facile, certo, ma Venezia è le sue fondamenta incurabili, è la prospettiva di chi cammina e guarda il Canale dal punto zero (come capita in alcune Città invisibili di Italo Calvino). Le alghe che si muovono, rossastre, come i capelli di una donna enorme che vive misteriosa sotto la città, e forse la sostiene. È possibile che sia la sua furia a scatenare quei momenti di tempesta, favoreggiando l’idea della scomparsa. La morte per acqua, come diceva T.S. Eliot ne La terra desolata. Il Phlebas del poema era un fenicio – civiltà pioniera, assieme a quella romana, in grandi opere di ingegneria idraulica – ma avrebbe potuto benissimo essere veneziano. E Westerman probabilmente lo sarebbe andato a cercare sott’acqua per avere la prova non che il personaggio fosse realmente esistito, ma che noi tutti siamo (stati) vivi davvero, almeno per qualche momento, fuori dalla letteratura. Vivi a Venezia, questa città impossibile che non abbiamo mai voluto (o potuto, chissà) capire. Westerman scrive, rielabora, si muove nell’elemento fluido con la permeabilità della sua prosa e delle sue storie. �uella del 4 novembre del 1966, quando l’idrografo segnò la misura record di 194 centimetri sopra il punto zero. �uasi due metri in più: uno scenario da film sull’apocalisse climatica, più o meno. «Un forte vento di scirocco, in combutta con svariati corpi celesti, sollevò il mare Adriatico fino all’ascensore del Campanile. Di colpo, con il Campanile in acqua fino alle caviglie, ogni splendore sembrò effimero. Sulle banchine allagate, i palazzi sembravano sul punto di essere portati via dall’acqua come scatoloni. La sopravvivenza di Venezia e del suo carico di tradizioni sembrava ancora una volta solo una questione di tempo. Le banchine erano disseminate di gondole sventrate, le coste nude, come carcasse spiaggiate di creature marine». Intermezzo #02: primavera 2017, Palazzo Grassi. Dalle grandi finestre del secondo piano entra tutta la meraviglia della luce veneziana in un giorno terso. La scultura blu di Damien Hirst occupa tutta la sala: Andromeda e i mostri marini. Uno squalo e un serpente acquatico gigante a fauci spalancate stanno per avventarsi sulla giovane donna incatenata alle rocce. Lei gira il capo e urla, fortissimo, per sempre. Un attimo prima che la tragedia si consumi, il famoso momento di silenzio (è pur sempre solo una scultura) prima dello schianto. Andromeda ha il volto di Tilda Swinton. Mi sembra l’immagine perfetta per dare una dimensione concreta alle parole di Westerman. Le creature del mare che assediano e stanno per sbranare la città che non ci poteva essere. E per sempre si resta sulla soglia della tragedia, annunciata, apparecchiata, mai consumata, forse. (Una sera, nel 2022, mentre vagavo per San Marco, perso nei giorni della preview della Biennale Arte, Tilda Swinton è uscita realmente da un portone, davanti a me. Per un attimo abbiamo incrociato gli sguardi, poi abbiamo preso direzioni diverse). Marinetti che proclama il suo odio per Venezia città bordello decadente, il Campanile di San Marco che improvvisamente crolla nel 1902, il Ponte della Libertà come il dito medio di Mussolini. Succede tutto in poche pagine che sembrano sempre sul punto di essere travolte dalla marea, o dalla massa d’acqua del Vajont. Ma, per questa volta, voglio lasciare che la sagoma più netta in questo racconto sia quella di Venezia, meno tragica, più inafferrabile. «Dobbiamo convivere con eventi traumatici come un’ecatombe in una vallata remota – mi ha detto ancora Westerman – quindi creiamo storie». Storie che sconfiggono la morte. Storie che hanno la tenacia della risacca o dei capanni di legno al Lido, così provvisori da sembrare destinati inevitabilmente all’eternità. Un po’ come l’urlo di Andromeda-Tilda in quella mostra dell’ex ragazzo arrabbiato dell’arte contemporanea britannica, così assurda e meravigliosa e roboante e grottesca. Fateci caso, i quattro aggettivi stanno benissimo anche per descrivere un’altra cosa: la vita. Poscritto: un lago in Africa, dopo il diluvio. Ci sono altre acque nella bibliografia di Frank Westerman, non solo quella veneziana, verdastra e così carica di Thomas Mann. C’è anche il lago Nyos, in Camerun, intorno al quale nel 1986, la notte tra il 21 e il 22 agosto, improvvisamente e senza alcun segno di distruzione muoiono oltre duemila persone e moltissimi animali. I sopravvissuti hanno pustole e soffrono di asfissia. I testimoni parlano di un’esplosione e delle acque del lago che, da limpide, erano improvvisamente diventate rosse. Westerman è andato anche lì, intorno a quelle acque da fantascienza, a raccontare qualcosa di impossibile in prima persona. Il lago della non-conoscenza, in un certo senso; un luogo dove per
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