Ossigeno #11

44 dell’Iran martoriato – e chi sei, Sansone? – senza capire che, se è arte e tornando alla stagnazione delle etichette da lui appena citata, non ha bisogno di fantomatiche aggettivazioni da affibbiarsi perché ha già, per diritto di nascita, le mani impegnate a lavare via sangue e soprusi), gli chiedo dunque quale sia la personale Spinta di Archimede che lo sprona ad alzarsi, prendere il caffè e fare arte, non affogando mai nell’acqua torbida dell’artwashing. Tosatti mi risponde senza esitare: «�uella forza si chiama obbedienza. Ne parla anche Santa Teresa d’Avila. Ci sono chiamate altissime nella nostra vita. Possiamo decidere di obbedire, o far finta di non aver sentito». Per quanti si limitino a navigare a pelo d’acqua questa potrebbe sembrare una risposta pretenziosa, quasi neocatecumenale. Ma Gian Maria Tosatti non è artista, né tantomeno uomo, che presta il fianco alla superficialità; Tosatti guarda dritto nell’abisso, immergendovisi, ed è da lì dove il soccorso è più necessario che disegna sempre una via d’uscita. In questi giorni in cui rileggo la nostra conversazione, assisto alla devastazione idrogeologica che ha colpito Ischia, e mentre stendo le parole del nostro incontro ripenso alle sue, di parole, scritte nel 2015 per il Corriere in occasione di un precedente, ennesimo dissesto causato da quella fragilità che abbiamo barattato con l’onnipotenza: «Ci diranno: “Il mondo sta crollando e voi disegnate fiori?”. Risponderemo: “Disegniamo fiori proprio perché il mondo sta crollando”». Perché è questo, l’arte: strattonare le coscienze attraverso la potenza di un’icona. Perché 1+1 non dà 2, ma due. Perché tutti viviamo in riva allo stesso mare, ognuno chiamato all’obbedienza dell’assecondare, e possibilmente del condividere, il proprio dono. Perché nessuno possa ancora credere di potere, scelleratamente, salvarsi da solo. Perché, di fianco alla rivendicazione di un diritto, ogni essere umano non dovrebbe mai dimenticare il dovere della cura. Pensando alla cura mi viene in mente il caffè napoletano, che si dice sia più buono. Al di là del fatto che io sono devotamente d’accordo, la motivazione più accreditata sembra essere una über alles: l’acqua, quella che sgorgava dalla fonte del Serino e che riempiva la rete idrica di Napoli. Certo che l’acqua, uno dei due soli ingredienti che compongono il caffè, è fondamentale; ma, come sempre, va maneggiata con cura. A Napoli vive una storia antica che recita: «Se il saggio napoletano indica la tazzina di caffè che ha preparato, lo sciocco guarda il caffè»; invece dovrebbe guardare il dito, e poi risalire dal dito al braccio, e da questo al saggio napoletano che lo ha appena preparato, con sapienza, con cura. A Napoli, il dito è ‘o rito. Ed è questo, a Napoli, il caffè: un rito antropologico, una liturgia sociale venerata quanto si venera San Gennaro, un acceleratore di accoglienza, un abbraccio caldo e fluido tutto limpido nel monologo di Eduardo de Filippo, orgoglioso di confidare al professore del balcone dirimpetto i suoi segreti nella cura della preparazione del caffè in �uesti fantasmi! (1945). Mi assumo tutte le responsabilità, in tempi in cui la schwa ə è d’obbligo per una certa intellighenzia, nel dire che Napoli è femmina. Che Lampedusa è femmina. Che Calais è stata femmina, e che Tosatti stesso lo è, tutte le volte che mette in arte l’urgenza di accoglienza – lui stesso ha sottolineato, nella sua autobiografia, quanto sia stato importante, in termini di costruzione di un immaginario tutto felliniano, l’essere cresciuto con due genitori di sesso femminile, sua madre e sua zia (come la Carrà, mi permetto di dire per mia imperitura devozione). E sì, dico che anche l’acqua è femmina, facendomi forte di una teoria sociologica contemporanea, quella dell’idrofemminismo di Astrida Neimanis, che ha evidenziato una potente congruenza nella «intensa intimità tra il valore dell’acqua e la cura delle donne», nel comune donarsi per accogliere, nel farsi mare e madre (mer et mère, in Hélène Cixous e Catherine Clément, The Newly Born Woman, 1986). Sorgente dell’idrofemminismo è la gestazionalità, la capacità di generare e accogliere l’altro da sé resasi oggi ancor più necessaria nel rapporto con le ridotte risorse idriche, nel creare nuovi immaginari, fluidi e comprendenti, per «visualizzare, agire e vivere l’acqua» (Antonella De Vita, Corpi d’acqua. La svolta idrofemminista di Astrida Neimanis, 2021). Fuori dall’alienazione delle logiche da catena di montaggio, imparando dall’acqua e dal femmineo la adattabilità, la relazionalità e la resistenza, scrive De Vita: «L’acqua è capace di mettere in connessione i corpi, farli fluire uno nell'altro, muoversi per inter-permeazione. L'acqua ibrida le soggettività, scavalca i confini dell'individualismo, dichiara, nel superamento del confine tra l'Io e l'Altro, la comunione e la solidarietà», rendendo il pensiero amniotico, il corpo interattivo, aperto alle confluenze, determinando l’importanza vitale della capacità di cura. �uella cura accogliente che si mette a Napoli nella preparazione del caffè, e che Tosatti mette in arte, nel concepimento e nella preparazione delle sue installazioni ambientali. A ben pensarci, l’arte contemporanea (e le aste fallimentari…) sono ree di aver svuotato del significato originario una pratica poetica come quella della cura attraverso la creazione di una professionalità specifica, quella del curatore, che da donatore di accoglienza è divenuto una specie di semidio pagano dell’intellighenzia

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