45 di cui sopra, la cui principale occupazione sembra essere quella di rendere l’arte ostica – il che, nella barriera verbosa che erige, è l’esatto contrario della pratica acquea, materna, propria della cura. Gli domando allora, per un’arte – la sua – in sé già materna, acquea e piena di cura, se abbia ancora senso la figura del curatore, e la sua risposta naviga sulla rotta di quell’1+1 che mi ha appena descritto: «Vede, il problema è nelle semplificazioni. Che cos’è un curatore? Un’etichetta. Né più né meno. Ma un’etichetta rischia di ridursi a un perimetro infinitesimale, rispetto alla pienezza del fenomeno. È come dire chi è un italiano. Chi è un bianco. Chi è un nero. Chi è un immigrato. Lo dissi una volta in una conferenza al Lincoln Center. Era un grande panel con molti esperti di immigrazione. Metà di loro, come me, erano stranieri che risiedevano in America. Però parlavano dei migranti usando la parola “they”. Io, che parlai per ultimo, dovetti farglielo notare. È da queste semplificazioni che nasce la nostra sconfitta come civiltà. E questo vale per le cose grandi come per quelle piccole. Curatori non ne conosco, e non mi interessa conoscerne. Conosco uomini e donne con cui ho voglia di lavorare perché le loro attitudini sanno dare un contribuito importante al viaggio che intendo fare. Talvolta il loro è un contributo di carattere critico, altre organizzativo, altre umano. Spesso un insieme di tutte queste cose. Ma il punto è che per me può aver senso avere accanto una persona come Eugenio Viola, come Alessandra Troncone o come Vicente Todolì. Penso alle persone, non al loro ruolo». Anche questa somiglia molto alla lezione dell’acqua, fatta di legami saldi. Inoltre, vitale e potente, l’acqua muta forma assecondando il suo contenitore. Esattamente come l’arte. Immergiamoci, allora, nell’estetica dell’acqua. Penso all’acqua come fluidità, nell’arte di Roni Horn. All’acqua come purificazione, nell’arte di Bill Viola. All’acqua come espiazione, nell’arte di Marina Abramović. All’acqua come futuro, nell’arte di Ólafur Elíasson. All’acqua come movimento, nell’arte di Pina Bausch. All’acqua come trasformazione, nell’arte dei Masbedo. All’acqua come abisso, nell’arte di Per Barclay. All’acqua come potenza, nell’arte di Anish Kapoor. All’acqua come lacrime, nell’arte di Francesco Vezzoli. All’acqua come materia, nell’arte di Gino De Dominicis. E penso a Gian Maria Tosatti, e all’acqua come diritto, tanto universale quanto bisognoso di riparo. Le sue opere sono spesso allagate, sono sommerse, sono fluide, sono assetate. Acqua fragile come cristalli di vetro in frantumi che inondano pavimenti. Acqua e fango da spalare che si confondono con la linea dell’orizzonte, nell’Episodio di Odessa del ciclo Il mio cuore è vuoto come uno specchio. «Sì – mi dice – l’acqua ricorre nel mio lavoro. Penso ai mille metri quadrati del secondo capannone del nostro Padiglione nazionale, completamente allagati. Ma penso anche a un elemento che stava quasi alla fine di una delle mie opere più angoscianti, 4_Ritorno a casa, nelle Sette Stagioni dello Spirito. Era un bicchiere pieno d’acqua, con accanto una bottiglietta di Novalgina. Poi penso ai rubinetti aperti della grande installazione a Casa Bossi (Tetralogia della polvere, 2012, NdR), come se quel precipizio tra il rubinetto e il fondo del lavandino potesse mostrare il sangue di questo enorme edificio ottocentesco, che fluiva dalle vene di piombo nelle pareti e vi ritornava. E poi c’è un'opera del 2009, La stanza bianca, dove il senso della morte era dato dal rumore dell’acqua che si sentiva nel locale docce di una fabbrica chiusa e completamente al buio. E, in ultimo, ricordo una delle opere che amo di più, Rassa, un registratore a bobine che riproduce il suono dell’alto mare». «È un grande enigma, l’acqua», riflette Tosatti. «Baudelaire diceva che si guarda il mare per guardare se stessi. E forse si guarda dentro un bicchiere, come dentro uno specchio, per vedere una porzione soltanto della nostra figura, forse la parte che fa male e che dev’essere lenita, magari, con una medicina». Il monito che custodisce, allora, la sua estetica dell’acqua c’entra molto con quella disperata vitalità evocata da Pasolini, e con il senso di rinascita: «Spesso l’acqua ha a che fare con la morte nel mio lavoro, ma anche con la vita. La morte dell’altro, a volte, ci fa rendere conto che noi siamo ancora vivi, che noi abbiamo ancora tempo». Il tempo. Nelle sue installazioni sembra sospeso, cristallizzato. �uasi impossibile dare loro una connotazione temporale, probabile accorgimento scenico che gli viene dal diploma conseguito in Regia – al Centro di Sperimentazione di Ricerca Teatrale a Pontedera, dove lavorava un gigante come Jerzy Grotowski – per rispondere a una sua precisa, espressa volontà: quella di rendere l’arte esperienza, estetica, estatica, mai anestetica, e il visitatore performer, immergendolo in un ambiente libero da qualsiasi ammiccamento temporale. «La sua ricerca costituisce un unicum nel panorama artistico italiano e contemporaneo, ed è profondamente influenzata dal peccato originale del teatro», nelle parole di Eugenio Viola.
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