46 Definendo i musei come reparti di terapia intensiva per le opere d’arte, e ammonendo a non confondere «il cimitero, con tutta la sua sacralità, con gli spazi della vita», Gian Maria Tosatti sanifica l’arte dalla pomposità naftalinica, prima causa di una certa puzza sotto il naso, e la lascia libera di scorrere per strada. «La pratica dell’artista credo sia quella di portare la battaglia, come un capitano di ventura, di città in città. E per farlo bisogna che il fatto avvenga in strada, tra la gente, come una guerra civile, una guerra di civiltà. Sarebbe ben strano combattere una guerra nel ritiro dei musei o delle gallerie», scriveva nel 2013. Portare l’arte negli spazi della vita fluidifica la separazione tra arte e vita semplicemente dissolvendola, sciogliendo quella barriera, finalmente elevando l’esperienza artistica a quella vitale. Esperienza e realtà. Teoria e riflessioni sulla quinta dimensione (2022) è il titolo del suo ultimo saggio, all’interno del quale Tosatti scrive dell’arte ambientale come pratica consapevole della pentadimensionalità della realtà – fatta di lunghezza, larghezza, profondità, tempo e, appunto, esperienza, percezione fisica e cognitiva del visitatore – mettendo in scrittura ciò che nelle sue installazioni mette in arte. Installazioni, le sue, cui accedere aprendo porte chiuse in mezzo a una strada, romanzi visivi prevalentemente privi di battage pubblicitario e comunicativo – se non quello, il più sincero, del passaparola – di fronte ai quali rispecchiarsi uno alla volta, in silenzio, perché per vivere l’arte non serve un’audioguida. E a quanti più o meno velatamente lo accusano di fare scenografia più che arte, lui più o meno fregandosene risponde attraverso l’arte stessa; perché se il vero performer è lo spettatore, il suo dovere di artista non può che essere quello di preparare per lui la più intensa delle scenografie. Nel parlarne con Gian Maria, mi sembra limpido come l’acqua che l’aver reso la sua arte pubblicamente esperibile risponda prima di tutto a un atto di gratitudine. La sua educazione sentimentale cresce infatti per strada, in quella Roma che è un museo a cielo aperto, a ingresso libero e consumazione altrettanto libera, all’interno della quale, sulla strada per il campetto, un bambino inciampa in un Bernini, in un Borromini, oggi anche in un Kentridge, che vanno silenziosi a occupare le sedute cristalline dell’immaginario e che saranno pronti a riemergere, non appena a esso si attingerà. «Da ragazzino – mi racconta – andavo tutti i giorni a trovare mia nonna all’ospedale San Giacomo di Roma. Prendevamo l’autobus e scendevamo sul lungotevere. Da lì passavamo accanto all’Ara Pacis e al mausoleo di Augusto, poi per Via del Corso, passando davanti allo studio di Canova – che ora è di Ontani – e poi dentro l’ospedale, la cui architettura è stata forse la mia morfologia artistica di base. All’uscita attraversavo Piazza del Popolo, entravo quotidianamente nella chiesa in cui sono conservati due dei più noti Caravaggio e poi di nuovo in autobus, fino a casa. E in mezzo a questo percorso, tra alcune delle meraviglie di Roma, c’erano le sculturine di Fausto Delle Chiaie. Piccole, allusive, interagivano con quei monumenti imponenti. Li dissacravano o partivano per storie tutte loro. Io le seguivo lungo il percorso come si segue un sentiero fatto di molliche di pane. Ogni giorno, per venticinque anni, ha posizionato le sue piccole sculture attorno alla recinzione del mausoleo di Augusto, lungo la strada per l’ospedale. Erano sublimi. E io fantasticavo. �uelle piccole opere mi facevano viaggiare». Un atto di gratitudine, il suo, verso l’arte pubblica che lo ha dissetato, che ha i tratti del contraccambio: la sua arte fluisce in mezzo alla strada, sgorga libera per chiunque abbia sete. A Roma, in L’Hôtel sur la Lune (2011), è un telescopio fatto di barili di petrolio dismessi, richiamo a Le Voyage dans la Lune di Georges Méliès (1902) come constatazione che non ci sono più occidenti da conquistare, posto in cima a un ex salumificio abbandonato, su richiesta della comunità in transito che lo abita – per segnalare la propria presenza a chi ne finge l’assenza, per saltare verso un altrove che porta le fattezze di una luna finalmente più vicina. A Napoli, in My dreams, they’ll never surrender (2014), è una distesa di centomila spighe di grano nutrita da un sole di latta e posta nel punto più remoto di Castel Sant’Elmo, un tempo utilizzato come prigione; centomila spighe di grano destinate a seccarsi, come lo è stato il pensiero di Gramsci incarcerato e poi disinnescato, a meno che lo stato italiano non decida di prendersene cura, prendendosi finalmente cura di se stesso. A Calais, per il capitolo finale del ciclo Histoire et Destin – New Men’s Land (2016), è una stella precipitata dallo stendardo dell’Europa, una autentica rovina dorata in mezzo a rovine impolverate, mare alle spalle, in quel lembo di terra promessa e poi mancata che è stata la Jungle, prima vera città del ventunesimo secolo, concepita dai migranti e abortita dall’Europa. A Scampia, in Elegia (2019), è un incanto di eterotopia nella quale inciampare all’interno della stazione metro, un paesaggio domestico dove la vernice delle pareti si scrosta in una miriade di petali di rosa, in omaggio all’umanità, alla grazia, alla gentilezza con cui i napoletani lo hanno incondizionatamente accolto.
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