47 Incondizionatamente, liberamente, come dovrebbe essere l’accesso all’arte. Incondizionatamente, liberamente, come dovrebbe essere l’accesso all’acqua, scandito nel sesto dei diciassette obiettivi che compongono l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. C’è un racconto di Raymond Carver – Cattedrale, del 1983 – in cui un uomo cieco domanda a un suo amico di fargli comprendere come sia fatta una cattedrale, e lui gliela disegna, calcando il tratto e permettendogli di sentire sotto i polpastrelli la pressione della matita, così da poterla immaginare. Ma a volte la realtà è ancora più potente e immaginifica della finzione: quando Antoni Gaudí progettò la cattedrale della Sagrada Familia si concentrò su una sola delle quattro facciate, intuendo che il tempo non gli sarebbe bastato ma senza mai smettere di pensare oltre i suoi stessi limiti. Gaudí immaginò una foresta di pietra, colonne come alberi, e ne portò avanti il progetto fissando una lastra di legno al soffitto, cui agganciò delle catenelle con contrappesi alle loro estremità, per comprenderne il portato e perché chiunque potesse vedere la Cattedrale ancor prima che fosse reale, guardando in su, come ogni volta che ci invade lo stupore. �uella Cattedrale, immaginata vera ancor prima di esserlo e realizzata grazie a uno slancio visionario, è la nostra Agenda ONU 2030. Ma se nell’Agenda è reso esplicito il diritto all’acqua pubblica, la fruizione all’arte è sempre più un fatto privato, elitistico e mediato, in mano a un sistema che la tiene lontana dalla strada, in balia del mercimonio, costringendola spesso alla clandestinità, come profetizzò Marcel Duchamp in una conferenza a Filadelfia del 1961: «Il grande artista di domani sarà underground». Sentimentalmente, come sentimentale è stata l’educazione di quel bambino che inciampava nell’arte e innocentemente, inconsciamente se ne imbeveva, in seno alla dicotomia pubblico/privato gli domando allora qual è il suo rapporto con le opere, una volta donate al pubblico. Che ne è di quelle spighe di grano assetate, di quei petali, di quella meteora naufragata, di quel viaggio sulla luna? «�uelle opere diventano parte di una mappa», mi risponde. «Di una mappa nuova. Che dà senso ai luoghi, ma soprattutto ai passaggi. �uando mi chiesero, ad esempio, di realizzare un’opera per la metropolitana di Scampia pensai a quegli anni. Pensai che ogni giorno tanti ragazzini avrebbero preso quei treni per andare a scuola e sarebbero passati davanti alla mia opera. Elegia nacque con questa consapevolezza. E io la costruii in modo che fosse il serbatoio di mille storie possibili. Una stanza vuota, con pochi elementi, i pezzi perfetti di una drammaturgia interiore che non aspettava altro che avere una sponda visiva per cominciare a sgorgare. Talvolta passeggio vicino a quell’opera e ascolto le persone che si scambiano idee su ciò che ci vedono. Per alcuni è lo studio di un San Girolamo contemporaneo, per altri è un carcere, per altri una povera casa. In ognuna di queste storie, il protagonista è colui che guarda. Ecco, dunque, che ne è di queste opere. Restano dispositivi a disposizione del pubblico. �uelle permanenti, poi, hanno una virtù particolare: sono luoghi in cui si può tornare. È così che mi dicono le persone. Non mi dicono mai: volevo rivederla. Dicono: volevo tornarci. Tornare in un luogo e trovarlo ancora lì è qualcosa che va anche al di là di una esperienza visiva. È la manifestazione di una casa dell’anima. Ecco, sono onorato e felice quando ho la possibilità di lasciare in giro delle case dell’anima, in cui alcuni possano tornare». È una metafora che riscalda, quella dell’opera d’arte come casa dell’anima appena evocata da Tosatti, ma nella sua arte ce n’è una più ricorrente, che non riscalda ma brucia: quella dello specchio. Non è solo il titolo di uno dei suoi cicli più impegnativi, Il mio cuore è vuoto come uno specchio – che dal 2018 lo sta portando nel mondo a comporre un ritratto decadente di un’idea di democrazia globale alla deriva, di fronte alla quale è cogente e cocente rispecchiarsi per potere immaginare una nuova via di salvezza – ma è anche la metafora che Tosatti individua per se stesso in quanto artista: quella di costruttore di specchi. «L’artista ha il compito di piantare uno specchio nella realtà, tagliente, come un rasoio aperto nell’aria». L’anima sintetica dello specchio, sintetica perché racchiusa nella sola sintesi di una cornice, permette la concentrazione sui punti di crisi individuati dall’artista per fare definitivamente, e una volta di più, i conti con noi stessi. Ma la funzione dello specchio – che nell’arte deve necessariamente allontanarsi dalla descrizione pedestre, da un’idea inflazionata di ricerca della verità che lasciamo volentieri alla cronaca perché l’arte non è, con tutto il rispetto, il reportage – è quella di un vuoto a rendere: «Il costruttore di specchi non è quello che costruisce l’immagine che c’è nello specchio, e quello che c’è di importante nello specchio è l’immagine». E quel riflesso restituito dall’arte, l’immagine, passa attraverso «un processo di conoscenza e, successivamente, di condivisione di quella conoscenza, che richiede un superamento, una dialettica. Che non faccio solo io, facendomi invadere dalla cultura di un luogo, ma che la città stessa compie nel momento in cui restituisco, come un’onda di ritorno, quell’intero patrimonio di conoscenza messo in una precisa frequenza, in un ordine che è simile alla struttura atomica di una lama».
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